lunedì 9 marzo 2009

as for me, I am a watercolor

Quando leggevo Anne Sexton le prime volte la trovavo irritante. Le poesie mi piacevano ma c'era qualcosa che mi infastidiva moltissimo; era sicuramente qualcosa di legato a quello che potrei chiamare una certa remissivita'; nella estrema lucidita' con la quale il suo inferno (personale ma non solo) veniva descritto minuziosamente non c'era mai un momento di fuga vigorosa, un prendere in mano tutta questa sofferenza e cercare di scoglierla, ma solo una registrazione acuta, estenuante di stati di malessere. Mi dava talmente fastidio che addirittura mi disfeci del libro, lasciandolo nella libreria della casa dove allora vivevo. 
Se ripenso adesso a quel periodo della mia vita, capisco il perche' di quella irritazione e perche' per me, in quel momento particolare, questo restare a pie' pari nel centro dell'inferno, descrivendolo nel dettaglio senza fare nessun accenno alle possibili vie di fuga fosse intollerabile. Fosse una parola che non volevo sentire. Era che li, in un paese di perenne primavera, volevo fare una scorta di speranza tale che mi bastasse per molto tempo e che durasse ancora, nel futuro; mi accompagnasse come un talismano da tasca che fosse in grado, all'occorrenza, di sprigionare tutto quel sole che ci avevo chiuso dentro e dissipare la nebbia a venire.  
Ai poeti si chiede troppo. Io, in qualche maniera la giudicavo, non mi capacitavo di come una donna come lei, con tutta la consapevolezza che traspariva nelle sue poesie, con la sua abilita' di immagini cosi' evidente, con il successo anche, quasi popolare che le sue poesie avevano raggiunto  non fosse riuscita a trovare un sentiero diverso da quello che aveva deciso di imboccare. Ai poeti si chiede troppo, non si vuole solamente che siano degli abilissimi maneggiatori di parole, dei pittori di stati d'animo indefinibili, degli esploratori di abissi ineffabili. Si vuole anche che siano dei modelli, delle figure esemplari, dei testimoni di una vicenda umana addiruttura edificante. Era questo che non tolleravo, che non volevo capire, che dall'inferno non si va via comprando un biglietto d'aereo per un paese caldo. L'inferno ti segue e ti accompagna e la sua descrizione non e' sempre una catarsi. Una generazione di donne, come Anne Sexton e come Silvia Plath, sua amica e compagna di lunghe conversazioni sulla morte e sui modi migliori per suicidarsi, ci ha regalato una cronaca del male quotidiano che per me e' un monito sull'illusione della fuga, la necessita' della resistenza. Adesso che ho trovato una distanza interiore, adesso che non ho piu' paura, quella parola posso ascoltarla.


1 commento:

  1. Verissimo, ai poeti si chiede troppo. E' esattamente quello che continuo a pensare mentre leggo la biografia di Dylan Thomas.

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