giovedì 26 marzo 2009

Vanishing Rooms

Jesse

Metro non era il suo vero nome, ma io lo chiamavo cosi'. Era l'autunno del 1975. Mi condusse per il braccio fuori dall'oscuro, marcescente magazzino, al molo di fronte a West Street. L'aria fresca, sottile, tagliava attraverso l'odore di muffa che mi riempiva il naso. L'impatto con il sole brillante di Ottobre mi faceva socchiudere gli occhi cosi' forte che mancai uno scalino e inciampai contro di lui. Lui si allungo' a bloccare la mia caduta, sollevando le mie dita all'altezza del suo naso. Mi aggrappai premendo alle sue spalle, tenni forte per un momento. Oscillammo come due ubriachi che danzano, cercando un equilibrio. Le sue mani stavano tremando per il freddo. Il sapore salato della sua pelle mi aveva lasciato la bocca e le labbra secche. Adesso potevo stare in piedi e di nuovo respirare.







Il parcheggio attorno al molo e al magazzino sembrava un parcogiochi deserto. Sentivo dietro di me dei passi, assi che scricchiolavano li' dove eravamo stati noi. Andammo ancora avanti dove l'Hudson lambiva le cataste di legno fradicio. L'acqua gorgogliava e scrosciava di piacere e i legni distaccatisi, rigidi, ondeggiavano nel flusso lento. Una delle aste si libero' spezzandosi, rimbalzo' nel risucchio della corrente, e si allontano' galleggiando in superficie. Ripulii i miei jeans, piu' del colore della polvere ormai che blu. Schegge di legno caddero fuori dalle cuciture. Guardai Metro per vedere se se ne accorgeva. I suoi occhi erano arrossati e gonfi. Forse lo erano anche i miei. I suoi jeans erano strappati alle ginocchia e impolverati allo stesso modo. Forse aveva le ginocchia sbucciate, non riuscivo a vedere. Continuava a tremare, ma io mi sentii riscaldato nell'ampio spicchio di sole. Strinsi gli occhi per vederlo meglio. La faccia aggrottata in una smorfia.
“Sei arrabbiato?” mi chiese, scostandosi i capelli bruni, arruffati, dal viso. Con le mani tirando fuori le schegge. “Sei arrabbiato perche' ti ho fatto venire qui?”
“Non mi hai fatto venire tu,” dissi. “Sono venuto perche' volevo.”
Metro tocco appena la mia giacca di denim. Scosse la testa. “Allora perche' mi guardi in quel modo?” chiese, tenendo fissi i suoi occhi nei miei.
“in quale modo?”
“che ne so...come se ti fossi tolto un pensiero.”
“Ma che ti e' preso?” dissi. Lui fece un passo indietro. Non intendevo sembrare cosi' infastidito. La sua pelle non era mai stata cosi' bianca.
“Niente.”
“Non voglio che ci incontriamo piu' qui, Metro. Promettimi che non dovremo piu' vederci qui.”
“Perche' dovrei promettere? Metro, e' cosi che mi chiami tu, non e' vero?”
“Ho paura..ecco che c'e'.” Avrei voluto toccarlo ancora, tenerlo stretto questa volta.
“Non me lo avevi detto, prima.”
“Lo so, e mi dispiace non averlo fatto.”
Sollevai la mano, verso di lui, ma cambiai idea e mi frugai invece nelle tasche. Trovai l'orologio. Erano le tre e tre quarti. Cavolo, ero in ritardo per la lezione di danza. Oggi sarebbe stato il giorno delle improvvisazioni, l'occasione di far buona impressione prima delle audizioni del mese prossimo. Non potevo perderla. Metro inizio' a dire qualcosa, ma io mi diressi lontano dal magazzino per vedere di prendere un taxi in strada. Lui mi venne dietro, il suo mazzo di chiavi tintinnava appeso con un gancio di pelle alla cintura. “Aspetta”.
Non potevo aspettare. Un taxi passo' sfrecciando chiamato da qualcuno. Un altro si fermo'.
“Aspetta” disse Metro.
“Sono gia' in ritardo, che c'e'?”
“No, niente. Solo, pensavo fossi arrabbiato.”
“Non sono arrabbiato.” Entrai nel taxi e abbassai il finestrino.
Metro aveva negli occhi uno sguardo un po' folle. Teneva il mento proteso, dritto, con fermezza. Le sue labbra sottili si aprirono e si richiusero, ma non disse nient'altro. Era piu' alto di me ma le sue spalle erano abbattute, e sembrava indebolito. Non tiro' su le spalle.
“Sono contento di essere venuto, Metro.”
“Di' la verita', non ti e' piaciuto...”
Sorrisi. Sorrise anche lui, esitando dapprima. Io sapevo perche' mi trovavo la'.
Indietreggio' dal taxi. Io dissi, “Ci vediamo dopo baby. Ti amo,” e il taxi si avvio' incerto. Il tassista mi esamino' attraverso lo specchietto. 
Ne avrei avuto solo per qualche ora. Metro sarebbe stato a casa quando io sarei rientrato. Ma mi mancava lo stesso. Sentivo un'agitazione nello stomaco. Forse era quello sguardo vuoto, indagatore, nei suoi occhi, o la sua pelle improvvissamente pallida contro le mie mani nere, oleose. Mi mancava gia' e lo cercai nel vetro posteriore. Stava in piedi nel mezzo di West12th street, come se le macchine che gli passavano intorno non ci fossero. Mi spaventava. Avrei voluto che il taxi cambiasse direzione e lo facesse salire su ma era troppo tardi. Perche' avevo cosi' fretta? Ma io corro sempre, corro alle lezioni di danza, corro a casa, corro alla cassetta delle lettere, corro solo per essere sempre un passo avanti a me stesso.

Melvin Dixon 

mercoledì 11 marzo 2009

rami nuovi


Oggi mi consolo con questa poesia...e sto a vedere che succede.


Ascolta, un viale avevo 
di sterminate rose
da guardare la sera, 
cieli di viole
che l'edera rampava a grandi tele,
avevo corde amorose.
E guarda adesso com' e' tutto raccolto in un mirino,
che finalmente la mia strada ho perso
nel mondo delle cose
e mi sento salire rami nuovi
e il cielo ce l'ho steso sulle dita
e amo, e mi rinchiudo
tutta nella vita.


Silvia Bre 

lunedì 9 marzo 2009

as for me, I am a watercolor

Quando leggevo Anne Sexton le prime volte la trovavo irritante. Le poesie mi piacevano ma c'era qualcosa che mi infastidiva moltissimo; era sicuramente qualcosa di legato a quello che potrei chiamare una certa remissivita'; nella estrema lucidita' con la quale il suo inferno (personale ma non solo) veniva descritto minuziosamente non c'era mai un momento di fuga vigorosa, un prendere in mano tutta questa sofferenza e cercare di scoglierla, ma solo una registrazione acuta, estenuante di stati di malessere. Mi dava talmente fastidio che addirittura mi disfeci del libro, lasciandolo nella libreria della casa dove allora vivevo. 
Se ripenso adesso a quel periodo della mia vita, capisco il perche' di quella irritazione e perche' per me, in quel momento particolare, questo restare a pie' pari nel centro dell'inferno, descrivendolo nel dettaglio senza fare nessun accenno alle possibili vie di fuga fosse intollerabile. Fosse una parola che non volevo sentire. Era che li, in un paese di perenne primavera, volevo fare una scorta di speranza tale che mi bastasse per molto tempo e che durasse ancora, nel futuro; mi accompagnasse come un talismano da tasca che fosse in grado, all'occorrenza, di sprigionare tutto quel sole che ci avevo chiuso dentro e dissipare la nebbia a venire.  
Ai poeti si chiede troppo. Io, in qualche maniera la giudicavo, non mi capacitavo di come una donna come lei, con tutta la consapevolezza che traspariva nelle sue poesie, con la sua abilita' di immagini cosi' evidente, con il successo anche, quasi popolare che le sue poesie avevano raggiunto  non fosse riuscita a trovare un sentiero diverso da quello che aveva deciso di imboccare. Ai poeti si chiede troppo, non si vuole solamente che siano degli abilissimi maneggiatori di parole, dei pittori di stati d'animo indefinibili, degli esploratori di abissi ineffabili. Si vuole anche che siano dei modelli, delle figure esemplari, dei testimoni di una vicenda umana addiruttura edificante. Era questo che non tolleravo, che non volevo capire, che dall'inferno non si va via comprando un biglietto d'aereo per un paese caldo. L'inferno ti segue e ti accompagna e la sua descrizione non e' sempre una catarsi. Una generazione di donne, come Anne Sexton e come Silvia Plath, sua amica e compagna di lunghe conversazioni sulla morte e sui modi migliori per suicidarsi, ci ha regalato una cronaca del male quotidiano che per me e' un monito sull'illusione della fuga, la necessita' della resistenza. Adesso che ho trovato una distanza interiore, adesso che non ho piu' paura, quella parola posso ascoltarla.



Mare del bisogno, Cassandra
dagli istintivi occhi blu la mia prigionia tranquilla
e' un rovescio del destino assai dolce, assai implacabile.
Con tristezza indovino negli occhi del profeta una
medaglia che si rovescia al tocco dell'uomo. O Cassandra
le tue occhiaie sono le mie preferite celle di rassegnazione
e le tue labbra non suggeriscono altri tormenti che 
tu non possa conoscere altrove che per questo mio
fragilissimo pensare.


Amelia Rosselli